Associazione Casa della Resistenza

Parco della Memoria e della Pace

 

Una proposta di lettura, da Antonella Braga, in occasione dell’8 marzo 2017: Gianluca Grossi, Infiniti passi, Bellinzona, Salvioni edizioni, 2016.

 

La vera letteratura è sempre un incontro con la bellezza, che gli antichi definivano – forse un po’ troppo ottimisticamente – come la manifestazione visibile del bene, ossia la prova provata che esiste pure da qualche parte un bene, anche se non sappiamo dove, se sopra, fuori o piuttosto dentro di noi, nascosto nei profondi abissi del Sé.

I libri sono però belli in sensi molto diversi: ci sono quelli che con la loro forza immaginativa e la potenza visionaria ci aiutano a “devertere” per sollevarci un attimo dalla pena di vivere; e ci sono quelli che, invece, non ci concedono tregua dalla realtà, che entrano nella nostra vita e lasciano un segno indelebile sulla pelle della nostra anima, riuscendo a dare una forma compiuta ai nostri pensieri, alle nostre emozioni, alle nostre inquietudini, ai nostri dubbi. Grazie a questi libri facciamo chiarezza in noi stessi e sul mondo che ci circonda, non perché forniscano delle risposte alle nostre domande, ma perché ci portano diretti al cuore dei problemi, ci mettono davanti alla realtà senza infingimenti, tolgono il velo della falsità, dell’ideologia, dell’indifferenza, ci liberano dalla melassa di un pietismo ipocrita e ci lasciano soli di fronte alla responsabilità del nostro sguardo. Sta a noi la scelta se continuare a guardare o distogliere lo sguardo.

Il libro che ha scritto Gianluca Grossi è di questo secondo tipo, almeno lo è stato per me e credo che lo possa essere anche per molti di voi. La sua scrittura riesce a compiere quest’operazione di disvelamento della realtà forse perché funziona come l’occhio di un fotografo, o meglio come l’occhio di un certo tipo di fotografo che non è a caccia di scoop, della senzionalità del reale, ma alla ricerca di quegli incontri che la vita ci concede di fare con altri esseri umani e di quegli “istanti di assoluta immobilità” in cui il tempo sembra fermarsi e sembra aprirsi un varco verso la verità del reale, verso lo sguardo impenetrabile dell’altro, in cui si riflette come in uno specchio il nostro stesso sguardo.

Il suo libro – parla della “rivoluzione” a cui stiamo assistendo e il cui significato è molto più profondo e sconvolgente di quanto lasci trapelare la semplicistica definizione di “crisi migratoria” – ci mostra la realtà in cui siamo immersi, che muta a un ritmo così rapido da non lasciarci il tempo di comprenderla e di governarla (se e per quanto sia possibile). Ci parla della realtà della guerra che pervade ogni aspetto della vita e la stravolge; della fragilità delle vite dei singoli "che vivono all’incrocio dei venti e sono bruciate vive", della dignità umiliata dei profughi, ma anche della “diminutio capitis” anche di chi assiste impotente o indifferente alla loro tragedia: davvero “Esistono momenti, in cui la dignità si nasconde, diventa invisibile” (si veda l’episodio della stazione di Gevgelija, Macedonia).

Questo libro ci parla della tendenza umana a semplificare, a ridurre il singolo all’universale, di quella logica identitaria, frutto di semplificazione e di ignoranza, che riduce ogni individuo a uno stereotipo, legandolo al luogo in cui è nato per puro caso (qui piuttosto che altrove), condannandolo così alla “maledizione delle origini”, nonostante l’unica verità della vita sia il flusso continuo del cambiamento. “Noi non siamo le nostre origini, siamo ciò che ci è capitato nella vita” (p. 244), scrive Gianluca Grossi e aggiunge una considerazione illuminante: l’unico che abbia in fondo diritto al riconoscimento di un’identità non casuale, non accidentale, è proprio il migrante, il profugo, quello che ha scelto di cambiare luogo, di rifarsi una vita altrove, in cerca di sicurezza e mosso da quel “principio di aspirazione” che sostiene e muove l’umanità sin dall’inizio dei tempi.

La forma scelta per parlare di questi temi non è stata quella del reportage giornalistico. Avrebbe potuto farlo, documentando il suo viaggio attraverso i Balcani a seguito dei migranti afgani, siriani, irakeni, pakistani, provenienti dalla Turchia e diretti verso il Nord Europa. Ha scelto invece la forma del romanzo, sdoppiandosi in due fotografi di guerra, il tedesco Alexander Pratkov, un fotoreporter più anziano, inquieto, alla ricerca di un senso per il proprio lavoro e la propria esistenza, che si mette alla ricerca di una famiglia afghana (Saber, Hanifa e i loro quattro figli) conosciuta a Kabul e ora in cammino verso la Germania, compiendo quegli “infiniti passi” che danno titolo al libro; e Arthur Melkins, fotografo inglese, un po’ più giovane, apparentemente più disincantato ma forse solo più lucidamente razionale e consapevole della natura dialettica della realtà nel suo farsi Storia.

Uso queste parole, non a caso. C’è un passo di uno dei messaggi che i due si scambiano, in cui Arthur chiede ad Alexander cosa avrebbero detto i suoi “filosofi tedeschi”. Credo sia una spia linguistica non casuale. Ed, in effetti, il suo è per certi versi un romanzo filosofico, non però un intellettualistico e astratto libello a tesi, ma una riflessione che scaturisce da un’esperienza vissuta e che tende a suscitare domande più che a risolverle, come solo sa fare la filosofia più genuina.

Di fronte a quanto sta avvenendo, al radicale cambiamento in corso, ci troviamo davanti a quesiti altrettanto radicali sulla natura della guerra, sulla possibilità umana non dico di controllare o guidare ma quantomeno di governare i processi, sulla natura razionale o caotica della realtà, sulla sostanziale fragilità della vita umana e sull’effettiva capacità di riscatto degli individui, sulla possibilità che la loro capacità di resistenza, il loro coraggio, il loro tenace “principio di aspirazione”, la loro ragione riescano a prevalere sulla forza del sistema, ma anche sulla forza del caos, del cieco caso, dell’imprevisto. Ne parlano Arthur e Malinka – la giovane profuga siriana che ha colpito Arthur per il suo coraggio, la sua lucida intelligenza e la sua ironia – partendo da un riferimento all’opera di Goya, I disastri della guerra (pp. 250-251).

Oltre a quelli di Malinka, in questo libro ci sono infiniti passi e molte storie, che casualmente si intrecciano tra loro svelando la trama nascosta della realtà. Ognuna di queste storie vale la pena di essere conosciuta. Forse quella che mi ha più colpito è quella di una bambina afghana, ridotta in un letto di ospedale non da una bomba ma da un sacco caduto da un aereo e che Arthur ha fotografato a Kabul (p. 78).

Di seguito a questo racconto, c’è una delle definizioni più illuminanti del libro e che ha dato forma a uno dei miei pensieri ricorrenti. Scrive Grossi: “L’indifferenza era il chiodo fisso di Arthur. In passato aveva avuto modo di darne una definizione che riteneva ancora valida: l’indifferenza era ignoranza dell’accadere simultaneo del mondo”. (p. 76). L’indifferenza non è più possibile se, ognuno di noi assume coscienza della simultaneità degli eventi. Soltanto chi è convinto che ciò che accade alla sua vita sia la sola cosa che accada, in questo preciso momento, può decidere di
ignorare la bambina afghana. È la domanda che sembrano rivolgere gli occhi di Saber (l’ingegnere afgano conosciuto tempo prima a Kabul) ad Alexander da una foto scoperta per caso sul giornale: “Dove sei stato tu e dov’eri quando abbiamo deciso di partire e dov’eri tu quando il gommone si è rovesciato in mare?” (p. 84)

Sono domande che dovremmo porci continuamente tutti, per non trasformarci in anime morte, per mantenere quell’inquietudine vitale che consente ad Alexander di superare la crisi di senso e di andare di nuovo incontro alla realtà. È per questo che ringrazio infinitamente (tante volte quanti sono gli infiniti passi del cammino di Saber e Hanifa da Kabul a Berlino) Gianluca Grossi di aver scritto questo libro.

È in corso una rivoluzione, anche se non ne sono ancora chiari il senso, la direzione di marcia, le possibilità di sviluppo, i rischi connessi. Almeno uno dei protagonisti del romanzo di Gianluca Grossi, Arthur, sembra però aver chiaro chi ne sarà il soggetto attivo: le donne, a partire dalle donne arabe e da quelle “rivoluzioni fallite” del 2011 che sono alla base di molti dei mali del presente.

È un giudizio che mi ha colpito molto. Per questo vorrei proporre, oggi, 8 marzo 2017, in occasione dello sciopero internazionale delle donne, di usare questa chiave di lettura per leggere la complessità del mondo attuale e il destino
di un’umanità comunque in cammino, la cui tragica determinazione Gianluca Grossi immortala nelle sue immagini.

(Antonella Braga)
 

Gianluca Grossi, Infiniti passi, Bellinzona, Salvioni edizioni, 2016
 

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