Associazione Casa della Resistenza

Parco della Memoria e della Pace

 

Promé. Una piccola conca dove confluiscono declivi scoscesi, qualche masso con incisioni rupestri, poco più sotto quattro baite che danno il nome alla frazione, tutt’intorno il bosco, da decenni non più tagliato, impedisce oggi la visuale del lago sottostante. Un recinto e delle croci contrassegnano il luogo.

Una scia di sangue. Il sentiero a gradoni di pietra che salendo per poco più di un chilometro conduce al paese di Trarego, per più di due anni è rimasto impregnato dal sangue delle nove vittime – sette partigiani e due civili traforati da centinaia di colpi d’arma da fuoco, sfigurati dai calci dei fucili e mutilati in più parti dalle armi da taglio – che i paesani hanno trasportato al cimitero con scale di legno.

Il funerale negato. I corpi vengono puliti e ricomposti dalle suore dell’asilo e l’intero paese affluisce al cimitero nonostante il divieto del maggiore della milizia confinaria Martinez di celebrare i funerali e di esprimere qualsiasi altra forma di cordoglio per le vittime, pena la messa a fuoco del paese.

Trarego con le due frazioni di Cheglio e Viggiona oggi conta 370 abitanti, circa la metà delle abitazioni censite. Posto a 700 metri, sulle alture della sponda piemontese del Lago Maggiore, ai tempi della guerra, nelle case in affitto o negli alberghi – quasi tutti oggi in stato di abbandono – ospitava oltre 3000 persone, metà delle quali sfollate da Milano a da altre città dell’alta Lombardia, per sfuggire ai bombardamenti alleati. La presenza fascista, a partire dall’ottobre del ’43 è massiccia e quotidiana: posti di blocco, controlli, requisizione forzata di prodotti alimentari. I reparti provenivano abitualmente da Cannero – sottostante paese sulle rive del lago – dove stazionava la legione “Ravenna”, da Cannobio e talvolta dalla Val Vigezzo, località dove erano schierati le milizie della Confinaria.

Partigiani: la loro presenza è comunque significativa; gli abitanti del paese hanno con loro costanti rapporti, soprattutto quelli che utilizzano per il pascolo gli alpeggi sovrastanti il paese e a ridosso della Val Cannobina. E la sera, quando i maimorti, come venivano chiamati i fascisti (sembra, oltre che per i tetri richiami funerei, per le due m cucite sulla divisa), ritornavano nelle loro caserme, i partigiani frequentavano spesso il paese. Numerose le testimonianze sia di partigiani che di paesani, che ricordano l’aiuto dato dagli abitanti: allarmi, nascondigli, trasporto di armi e di persone lungo gli itinerari che conducono oltre il confine con la Svizzera, condivisione dei prodotti dell’economia di montagna (burro, frutta ecc.).

L’inverno ’44–’45 da tutti è ricordato come un inverno freddissimo, in cui “erano gelate sin le castagne”, e con poca neve. Dopo i rastrellamenti seguiti alla sconfitta della “Repubblica” partigiana dell’Ossola, il grosso delle formazioni, dopo la metà di ottobre, si era rifugiato in Svizzera. Tra Verbania e il confine era presente soprattutto la formazione della Cesare Battisti guidata dal sottotenente Armando Calzavara “Arca” mentre sulle alture verso l’Ossola erano presenti i garibaldini della “Valgrande Martire”. Oltre alle azioni continue sui presidi fascisti le formazioni mantengono, talora in collaborazione con i contrabbandieri locali, i collegamenti con la Svizzera per il transito di profughi, armi ed informazioni. In territorio svizzero, sopra Ascona, in una villa (posto 24) vi è un punto di appoggio per quelli che hanno sconfinato o, viceversa, decidono di rientrare. Al di qua del confine, nell’alta Val Cannobina, viene installata una ulteriore postazione (posto 24 bis) di appoggio e controllo dei transiti oltre confine.

La volante Cucciolo, comandata da Peppo Chiovini, costituiva una squadra allenata e veloce di partigiani “esperti”, in grado di effettuare spostamenti quotidiani anche di 20 chilometri. A notizie confuse di un attacco al posto 24 bis Arca invia la volante, per l’occasione composta da nove uomini, da sopra Verbania (Scareno, sede del comando), alle Biuse di Olzeno, nell’alta Val Cannobina. Il 24 febbraio, la sera, dopo la prima giornata di cammino, il gruppo di partigiani fa sosta nell’alpeggio di Truno, qualche chilometro sopra Trarego. Tre di loro scendono in paese in corvée per procurarsi provviste presso i negozi di alimentari.

Il rastrellamento. Probabilmente informati della loro presenza i comandi delle milizie di Cannobio (il famigerato capitano Mario Nisi) e della Val Vigezzo (Maggiore Martinez) fanno confluire, dall’alba della mattina seguente, tutte le forze disponibili. Accortasi subito di “essere in rastrellamento”, la volante riesce a defilarsi verso il basso e nascondersi, sino alle cinque di sera, in una conca. Il passaggio casuale di alcuni paesani attira l’attenzione dei fascisti che confluiscono sul luogo. L’ultimo tentativo di fuga riesce solo a due dei partigiani che, pur feriti, riescono a precipitarsi a valle e nascondersi. Due paesani, nascostisi in una grotta a valle, probabilmente presi per partigiani anche se disarmati, vengono anch’essi trucidati.

Il rituale della violenza. “Non sono morti come si muore in guerra. Sono stati seviziati …e queste cose non passano più” racconta ancor oggi la sorella del più giovane dei partigiani, Gastone “Cesco” Lubatti. Suo padre, medico, ha constatato, nei nove cadaveri 348 ferite sia d’arma da fuoco che da corpi contundenti e da taglio. Non solo si scaricano sui morti e sui feriti tutte le munizioni, ma si procede al loro annichilimento secondo una ben precisa logica simbolica. In primo luogo la sottrazione delle scarpe: di qui non vi muoverete più; poi il viso: nessuno vi deve più riconoscere; la bocca mutilata e riempita di ricci: non avrete più parola; il cuore, non c’è nessuna pietà; infine i genitali: non avrete eredi. Il seppellimento in una fossa comune avrebbe dovuto concludere la totale cancellazione. E poi a festeggiare e a vantarsi a voce ben alta della prodezza nell’osteria del paese di Oggiogno, dall’altra parte della vallata.

Terrorizzare la popolazione. Ad un ragazzo di 16 anni delle baite di Promé vengono fatte togliere le scarpe ed avviata la procedura della fucilazione; solo l’intervento del padre riesce a fermare l’esecuzione. Sarà quest’ultimo che dovrà portare in paese l’ordine scritto di recuperare le salme col divieto di qualsiasi celebrazione funebre. Ripetute le minacce di incendiare il paese. Il giorno successivo il capitano Nisi irrompe nella casa di Aldo Brusa, uno dei due civili uccisi, minacciando moglie e giovani figli.

La decima vittima. Un paesano di 54 anni, Giuseppe Clair Gagliani, in precedenza unitosi ai partigiani, il 26 mattina in cimitero esprime sdegno e solidarietà alle vittime. Informati i fascisti lo cercano e, non trovandolo, prendono in ostaggio, imprigionandola a Cannero, la figlia sedicenne. Costretto così a consegnarsi, viene scortato sulla mulattiera per Cannero e lì, ad un tornante, assassinato, crivellato di colpi e pugnalate e il corpo abbandonato per strada.

Il rullino ritrovato. La maestra del paese, Anna Bedone Ferrari, donna energica e coraggiosa, che nel pomeriggio prestava servizio in Comune come aiuto-segretaria, dal dicembre del ’43 aveva nascosto e protetto, con il silenzio complice dell’intero paese, una famiglia di sette ebrei (Coen – Torre); il giorno successivo all’eccidio, in accordo col segretario comunale, fotografa i sette partigiani, che le suore avevano ripulito e ricomposto, in modo da poter successivamente esser riconosciuti dai famigliari. Il comando di Cannobio, venutone a conoscenza, sequestra il rullino. Il 24 aprile, quando Cannobio venne liberata, Nisi riusciva a fuggire; nella sua giacca venne ritrovato il rullino della maestra: quelle foto ancora oggi, con la bambagia che riempie i fori di sevizie e mutilazioni, ci mostrano la violenza di quel giorno. Il processo. La Corte di Assise straordinaria di Novara, dietro denuncia della madre di Lubatti, processa il maggiore Martinez e il capitano Nisi (quest’ultimo, fatte sparire per sempre le sue tracce, in contumacia ).

Il processo si protrasse per oltre un anno e il 27 febbraio 1947 la corte emise la sentenza condannando i due, sulla base della legislazione vigente, alla pena capitale. Pena mai eseguita e ridotta a pochi anni per le successive revisioni ed amnistie. La corte fra l’altro accertò che tutta l’operazione fu concertata fra i due ufficiali senza alcuna partecipazione (né ordini) da parte tedesca; che i partigiani feriti arresisi furono ugualmente passati per le armi e sottoposti a ulteriore infierire con moschetti e armi da taglio; i loro corpi furono depredati (scarponi, anelli ecc.); che il tutto aveva lo specifico scopo di terrorizzare la popolazione “non solo straziando i cadaveri, ma proibendo i funerali e minacciando incendi nel caso la popolazione desse prova di simpatia verso le vittime o le loro famiglie”.

Conferimento medaglia d'argento al merito civile Il Presidente della Repubblica, in data 26.06.2008, ha conferito al Comune di Trarego Viggiona la medaglia d'argento al merito civile in memoria delle vittime dell'eccidio di Trarego del 25 febbraio 1945. La richiesta era stata inoltrata nei mesi precedenti dal sindaco Renato Agostinelli citando le pubblicazioni sull’eccidio e “il bellissimo cortometraggio che racconta i tragici fatti della Resistenza, veramente toccante e che ci viene ripetutamente richiesto”. Nella motivazione ufficiale si cita fra l’altro “la popolazione” che “offrì un ammirevole prova di generoso spirito di solidarietà, prodigandosi nell'accogliere nelle proprie abitazioni partigiani e quanti avevano bisogno di aiuto.”

I caduti. Ivo Borella, 25 anni; Luigi Velati, 21 anni; Corrado Ferrari, 24 anni; Ermanno Giardini, 20 anni; Gastone Lubatti, 19 anni; Luigi Leshiera 22 anni; Pierino Agrati, 25 anni: partigiani della volante; Aldo Brusa e Primo Carmine, paesani; Giuseppe Clair Gagliani, 54 anni.

Sull’eccidio di Trarego. L'episodio fu a lungo lasciato in sordina probabilmente perché più comodo ricordare gli orrori compiti dai "tedeschi". Nel 2003 venne alla luce per due ricerche pubblicate casualmente negli stessi mesi: una dello studioso romeno Michael Jakob (docente alle università di Grenoble e Ginevra) che, soggiornando in ferie nel paese lacustre sottostante di Cannero, si appassionò della vicenda (La strage di Trarego, Tararà, Verbania 2003 ); la seconda dell'Istituto Cobianchi di Verbania che aveva due ex allievi fra i caduti di Trarego. Quest'ultima ricerca (Memoria di Trarego) vinse nel 2004 la prima edizione del premio dell'ANCI sulla storia locale e viene ripubblicata nel 2007 in edizione ampliata dall’editore Tararà. Partendo da quest’ultimo testo, il regista Lorenzo Camocardi ha realizzato, con una classe di studenti dello stesso Istituto, il film Trarego memoria ritrovata, prodotto dalla Casa della Resistenza, proiettato in prima visione domenica 4 marzo 2007 nel salone multiuso di Trarego. Il filmato, che contiene interviste a testimoni ed esperti e ricostruzioni fiction interpretate dagli studenti, ha avuto ampia diffusione sia in DVD, in televisioni locali e regionali e in circuiti non commerciali (Comunità locali, circoli ed associazioni culturali, scuole ecc.). Ha inoltre ottenuto la Menzione della giuria al Concorso nazionale Filmare la storia, edizione 2007, indetto dall’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza nella sezione Premio speciale “25 aprile”. Verrà inoltre proiettato nella rassegna –concorso Piemonte movie 2009 che si svolgerà a Torino Moncalieri tra il 4 e il 14 marzo.